PERCHÉ ANDARE DA UNO PSICOLOGO PSICOTERAPEUTA?
DOMANDE E RISPOSTE UTILI.
Cosa significa che sto male per un malessere psico-emozionale o psico-corporeo/psico-somatico?
Significa che sto vivendo un periodo della mia vita in cui sto “abitando” uno stato mentale (di idee, pensieri, ragionamenti, anche in base a convinzioni, ricordi ed esperienze, …) uno stato emozionale (con emozioni e stati d’animo che continuano a ripetersi) di tipo spiacevole che possono ripercuotersi anche in uno stato di disagio fisico (in cui parti del mio corpo riflettono lo stato di malessere mentale – emozionale).
Una situazione di disagio fisico di questo tipo che si ripete per molto tempo può anche cronicizzarsi e portare a disturbi fisici cronici e malattie.
Se mi trovo in una situazione di malessere di questo tipo lo psicoterapeuta può essere probabilmente la figura professionale specializzata più adatta nel potermi essere di aiuto.
Proprio come quando il mio malessere è di altro tipo, ad esempio mi fa male un dente o un braccio, vado dalla figura professionale “specializzata in quel disagio”, il dentista o l’ortopedico e così via.
Ciascuno di noi è caratterizzato da alcuni “modi di vedere le cose e conseguenti modi di fare” con i quali si è nel corso del tempo talmente “identificato” che è arrivato a darli per scontati, a non metterli più in discussione. Ed è diventato un automatismo caratteriale. E’ arrivato a identificarsi “solo con l’idea positiva che si è fatto sugli aspetti buoni” di quell’atteggiamento. E non riesce a “notarne in toto” le conseguenze: quelle “buone” e quelle “non buone”, disfunzionali per sé e per le persone con cui si rapporta. In questo tipo di atteggiamenti mentali, questi “pre-supposti automatici da cui si parte” (per interpretare la realtà, ragionare, comportarci) si potrebbe dire che ciascuno di noi sia “cieco”, in quanto non si è capaci di notare anche il “rovescio della medaglia” di quell’atteggiamento.
Quindi, nei nostri pensieri e nelle nostre logiche a volte ragioniamo partendo da pre-supposti che sono ormai talmente assodati da immemore tempo che, se non ci soffermiamo a confrontarci con qualcuno che ce li fa notare, tendenzialmente non li riusciamo a “vedere”.
In altri casi nei nostri pensieri e ragionamenti, che appaiono molto lineari e logici come “un abbottonare uno dopo l’altro i bottoni di una camicia”, spesso non ci si accorge che si è abbottonato il “primo bottone nella asola sbagliata”. Quando ciò avviene, tutto il mio pensare e ragionare che appariva molto logico e “veritiero” in realtà è inquinato da un pre-supposto “inesatto” che mi metterà con buone probabilità in un “atteggiamento disfunzionale” rispetto alla questione in oggetto.
Ciascuno di noi è quindi abbastanza cieco rispetto a certi propri pre-supposti ed esagerazioni mentre siamo in grado di notare molto bene gli atteggiamenti mentali “esagerati” che “caratterizzano”altre persone con cui ci relazioniamo.
Per questo motivo ognuno di noi avrebbe bisogno di altre persone che gli fanno “da specchio”, cioè che “gli rimandino” cosa vedono. Ma questo purtroppo, soprattutto nella cultura attuale, è sempre meno possibile. Si conversa rimanendo sempre molto “in superficie”. Ci si confronta pochissimo su aspetti più “profondi”, anche con amici, partner o familiari; e quasi sempre “non dicendo tutto di sé”. Non mancano le difficoltà anche nel caso in cui si sia disponibili ad aprirsi: aprendosi capita spesso che l’amico, il partner, il familiare abbia difficoltà, imbarazzo e titubanze a gestire la cosa e soprattutto a “rimandarti ciò che vede” di te. Per vari motivi anche comprensibili: non sa se fa bene o meno a dirtelo, ha paura di ferirti, o vi è una “relazione” tra di voi da salvaguardare e non vuole che magari una parola di troppo possa rovinarla. Inoltre ovviamente non avendo le competenze necessarie, spesso non sa se quello che “sente” e che “vede di te” sia “sensato” rimandartelo. D’altronde non è il suo mestiere ed è normale che una persona non “sappia fare” una cosa in cui non è formato o non ha esperienza, indipendentemente che ciò riguardi il saper fare il panettiere, il potatore, il dentista, lo psicologo, o qualsiasi altra cosa.
Purtroppo quindi “gli altri” con cui siamo in relazione quasi sempre non riescono a essere uno specchio davvero “utile”.
Lo psicoterapeuta è forse oggi uno dei pochissimi che può svolgere questo ruolo di “utile specchio” grazie alla “sua preparazione ad esserlo” e al “non avere un tipo di relazione da salvaguardare”. E anche perché avendo “lavorato su di sé” (nel corso della propria formazione in psicoterapia) è tendenzialmente più “consapevole e presente” e ciò che rimanda al paziente solitamente è meno condizionato e distorto dai propri presupposti caratteriali (di cui inizialmente, prima della formazione, molto probabilmente era egli stesso “cieco”).
Di certo c’è stata una grande confusione nella gente su cosa faccia esattamente lo psicologo: molti erroneamente pensano che si occupi solo di disturbi psicologici, senza sapere che la sua attività è principalmente rivolta anche allo sviluppo di una condizione di maggiore ben-essere psicofisico e relazionale.
Va sfatato il “falso mito” che ci si rivolge allo psicologo solo in situazioni in cui si “sta male”. Oppure, informazione ancora meno corretta, “solo se si ha un forte disagio psichico”. Su ciò non è stata fatta nei decenni passati una adeguata informazione e si è diffusa una certa confusione. Solo negli ultimi anni si è iniziato a diffondere un’idea più chiara e reale su cosa faccia lo psicologo psicoterapeuta. E anche a fare meno confusione con altre figure professionali, come ad esempio il medico psichiatra che ha un ruolo abbastanza diverso e che si occupa prevalentemente del trattamento “farmacologico” dei sintomi in certe tipologie di disagi.
Quando la persona “sta male”, lo psicologo psicoterapeuta può essere di aiuto: parte dai sintomi per esplorare insieme il malessere psicoemozionale alla base dei sintomi stessi e con l’uso di tecniche e modalità terapeutiche (non farmacologiche) aiuta la persona a stare meglio.
Lo psicoterapeuta può essere di aiuto anche nei casi la persona “stia già bene” e vuole mantenere, migliorare la propria modalità di ben-essere o migliorarsi in qualche atteggiamento in qualche ambito della propria vita: ad esempio nel lavoro, nei rapporti sociali, nelle relazioni amicali, genitoriali, di coppia, in famiglia, … .
Allo stesso modo in cui, pur stando bene fisicamente, se voglio “migliorare” il mio benessere fisico, il mio aspetto fisico, la mia prestanza fisica, o una prestazione sportiva, mi rivolgo ad un coach di una palestra che mi aiuti in un percorso di miglioramento. Oppure ad un nutrizionista o un dietista se, pur stando bene, voglio essere supportato nell’imparare come rapportarmi meglio con l’alimentazione.
Posso ad esempio essere un genitore desideroso di apprendere come rapportarmi al meglio con mio figlio.
Oppure posso essere una persona curiosa di sapere come utilizzare al meglio i miei talenti e i miei aspetti caratteriali. Oppure voglio migliorare le mia abilità relazionali e sociali utili in ambito personale e lavorativo. O sento di voler potenziare il mio “senso di sicurezza interiore”.
Oppure posso essere uno studente delle superiori o dell’università e voglio migliorare la mia modalità di studio apprendendo tecniche di concentrazione, memorizzazione, o recupero energie.
Oppure se ricopro un ruolo manageriale posso volermi migliorare nella gestione degli obiettivi o dei collaboratori.
Mi posso rivolgere ad uno psicoterapeuta per mille motivi di questo tipo.
L’essere accompagnati in un viaggio di esplorazione delle proprie risorse e potenzialità può trasformarsi per la persona in un’occasione di crescita personale, dove conoscersi meglio e migliorarsi anche in aspetti in cui non credeva fosse possibile.
Lo psicologo psicoterapeuta lavora per migliorare la qualità della vita della persona. A favore cioè di una condizione di ben-essere che non si limita all’assenza di sintomi, bensì ad un equilibrio più funzionale e gratificante nel rapporto con se stessi, con gli altri, con le situazioni della propria quotidianità. Ed anche nel rapportarsi con obiettivi che si vogliono raggiungere tra vincoli, risorse e potenzialità.
Sostanzialmente in tutti i casi in cui persiste un malessere interiore di tipo psicoemozionale o psicosomatico. Indipendentemente che questo sia legato ad aspetti della mia vita personale, relazionale, sociale, familiare, di coppia, scolastica, lavorativa, ecc.
Oppure quando mi trovo in una situazione, una scelta, un cambiamento (come ad esempio scegliere la scuola, cambiare casa, sposarsi, avere dei figli, la perdita del lavoro, invecchiare, ecc.) che mi mette in una crisi interiore che persiste e che mi accorgo di non riuscire a gestire.
Non è tanto importante quanto sia – più o meno – grave “oggettivamente” la situazione (ad esempio il fatto che riguardi un evento particolarmente grave come un lutto, un incidente, una malattia) perché non è la gravità “oggettiva” che determina o discrimina “quanto posso” starci male io “soggettivamente”. E’ importante invece “il mio vissuto soggettivo”, ciò che significa soggettivamente per me. Se il mio è un vissuto di malessere che persiste è sicuramente il caso di portarci attenzione. Anche se dovesse riguardare una cosa che “razionalmente giudicherei” di poco conto.
A tal proposito, ogni tanto capita che una persona nelle prime sedute mi confidi che ci ha pensato e ripensato tantissimo di prendere la decisione di contattarmi proprio per il fatto che una parte di sè “giudicava non importante, di poco conto, o addirittura stupida” la cosa per la quale stava male. Invece è necessario sapere che non importa nulla quanto questa cosa sia oggettivamente grave, E’ importante aver chiaro che quel malessere che sto sentendo è una “spia” che mi sta segnalando qualcosa su cui intervenire, da soli se si riesce, oppure con l’aiuto di qualcuno che può essermi effettivamente di aiuto. Meglio ancora se ha la preparazione per farlo.
In ogni caso, indipendentemente dal “giudizio sulla gravità oggettiva”, è buona cosa intervenire per tempo, senza aspettare troppo: appena noto che non riesco a gestire ciò che succede dentro di me e che il malessere persiste.
Indipendentemente che questo malessere mi possa sembrare “solo interiore”: magari costituito di incertezze, preoccupazioni, confusione, disorientamento, sensazioni di vuoto, apatia, emozioni spiacevoli, sensazioni fisiche sconosciute, o altro che apparentemente mi può sembrare non possa influire su gli “altri”.
In realtà se non riesco ad avere un “rapporto sereno con me stesso” è quasi inevitabile che ciò abbia effetti spiacevoli anche nel rapportarmi con gli altri, innescando incomprensioni e difficoltà relazionali.
E’ importante intervenire per tempo, prima di arrivare a sentirsi prigionieri della situazione, dei propri pensieri, delle proprie emozioni e sensazioni corporee, delle proprie reazioni inadeguate. Diversamente la mia vita può progressivamente perdere “qualità”, il mio livello di energia e di umore può abbassarsi e posso fare sempre più fatica nella quotidianità.
Un periodo di “crisi interiore” spesso è espressione di una fase di transizione da un “certo equilibrio nel proprio modo di stare nel mondo” avuto fino a quel momento ad un “nuovo diverso equilibrio” . Ciò non vuol dire che l’equilibrio avuto fino ad allora fosse sbagliato o che non andasse bene, bensì che esso non è più funzionale a quei “cambiamenti” avvenuti fuori e dentro di noi. Questo accade perché la nostra vita, il nostro esserci nel mondo, è in continuo cambiamento e chiede di trovare sempre nuove forme d’espressione adeguate, funzionali e sufficientemente soddisfacenti.
E’ buona cosa allora riuscire a comprendere meglio che cosa sta succedendo “fuori e dentro di sè” e cercare di “gestire un nuovo equilibrio”.
E’ normale che ognuno cerchi di farlo da solo, e con l’aiuto delle persone che gli sono vicine emotivamente. Se però si nota che il disagio persiste, che le soluzioni e le strategie che si mettono in atto sembrano non aiutare o a volte complicare la situazione, può essere meglio ricorrere all’aiuto di una persona “esterna” come lo psicoterapeuta. Esterna al proprio “sistema mentale di ragionare” ed esterna al proprio “sistema familiare e di relazioni”; quindi persona meno influenzata dal “sistema interno ed esterno” e più preparata e formata ad essere di aiuto in queste situazioni.
Lo psicologo psicoterapeuta è un professionista che aiuta la persona a “rimettere in moto le capacità di essere fautori del proprio benessere”. Capacità che non sono scomparse ma che, per svariati motivi, si sono temporaneamente bloccate e che hanno bisogno di ricominciare a fluire.
Lo psicoterapeuta può aiutarmi facendomi notare “come, in che modalità, io stesso posso aiutarmi”. Ma ovviamente è fondamentale la mia attiva collabor-azione. Un pò come se vado in palestra per fare ginnastica correttiva o per migliorarmi in postura o altro e il trainer mi fa notare quali sono le modalità utili per risolvere il mio problema; ma sono io che devo avere un atteggiamento attivo di collaborazione a mettere in atto quelle modalità e a sperimentare l’effetto degli esercizi.
In una situazione di malessere interiore non è buona cosa pensare di poter avere lo stesso atteggiamento “passivo” di quando ad esempio vado dal dentista o dall’ortopedico (perché mi si è cariato un dente o mi si è rotto un braccio) e dire “curami tu” quella parte “materiale” del mio corpo che mi fa male. In questo caso non vi è solo una componente “fisica, corporea” ma vi è anche una componente mentale (di atteggiamento, credenze, ragionamenti, ecc.) ed emozionale (sentimenti, emozioni, stati d’animo, ecc.) che necessitano per forza dell’azione (azione interna a se stessi) e quindi collabor-azione della persona in questione.
Affinchè lo psicoterapeuta mi possa essere di aiuto, ovviamente, basilare è che “io voglia veramente stare meglio di come sto”, che sia “sufficientemente stanco” della situazione che sto vivendo. Cioè che io sia “realmente” disponibile, con motivazione, collaborazione e volontà a “mettermi in discussione e in gioco”, a fare chiarezza dentro di me, a provare a “sperimentarmi e intraprendere passi” nella direzione di un qualcosa di diverso in cui posso sentire se sto meglio di come sto ora.
E’ ovvio che questa sia una condizione imprescindibile per poter fare dei “progressi” e non rimanere incatenati nei “pregressi”. Altrimenti sarebbe come se io andassi da un fisioterapista per un male ad un arto, o da un gastroenterologo per un altro disturbo, e non sia realmente disponibile a provare a chiarire insieme come poter stare meglio o a provare a mettere in atto gli “accorgimenti” che abbiamo chiarito.
Su certi aspetti capita che facciamo un pò tutti così. Vorremmo non sentire disagio continuando però a mettere in atto lo stesso identico atteggiamento avuto sino a quel momento anche se disfunzionale. E’ un pò come “voler non sentire più dolore continuando a sbattere la testa” nella solita modalità. E’ possibile? No! In questi casi ci si è “irrigiditi” nelle solite modalità anche se disfunzionali. O perché non vi è sufficiente consapevolezza di quanto contribuiscano al mio malessere. O perché non vi è una reale disponibilità a mettere in discussione queste modalità: magari perché tanto abituali e conosciute e quindi “illusoriamente” rassicuranti, magari perché per qualche verso ci fanno comodo , o magari perché c’è qualcosa di inconscio che ci lega emotivamente e non vogliamo “lasciarle andare”.
Atteggiamenti e comportamenti disfunzionali sono spesso “sintomi”, cioè “espressione visibile” di un malessere interiore o del “tentativo di spostamento” da un malessere interiore (ad esempio nelle dipendenze “bevo o faccio altro per dimenticare”). A volte sono una compens-azione, una consol-azione, uno sfogo, un atteggiamento-comportamento di risentimento o ripicca, o altro ancora.
I sintomi possono quindi essere “spie” per “rendere più visibili” agli altri ma anche a me stesso, nel caso non poco frequente che io non voglia fare contatto con questo malessere interno e con le relative emozioni spiacevoli.
Non volere fare contatto con le “spie accese” proprie o degli altri che segnalano un malessere interiore sarebbe un pò come se si accendesse una spia che mi segnala un malfunzionamento nell’automobile e io “per non volerla vedere”, “per non pensare alla spiacevolezza della cosa”, coprissi la spia con del nastro isolante oppure tagliassi i fili della spia. Non è che questo aiuterebbe, anzi quello che otterrei sarebbero danni ben più gravi. Lo stesso avviene anche per l’essere umano.
Voglio fare un esempio tratto da un caso reale:
“ Ho iniziato a buttarmi sul cibo come sfogo del mio nervosismo, compensazione e consolazione del malessere che stavo vivendo. Malessere legato al fatto che da un pò di tempo stavo vivendo una frustrazione e insoddisfazione nella sessualità: i rapporti sessuali con mia moglie erano andati via via diradandosi e a me non andava bene. Io ci stavo male e le ho detto ciò più volte, mentre per lei questo non era un problema, le andava bene così, e sembrava non avere nessuna intenzione di “venirmi incontro” se non a parole. Per non rovinare il rapporto, che per tanti altri versi andava bene, “tentavo di spostarmi” da questo malessere interiore buttandomi sul cibo. In fondo sapevo che era uno “spostamento temporaneo“, una distrazione non risolutiva, che poi aggiungeva all’insoddisfazione per la situazione l’insoddisfazione per il mio comportamento. Ma non sapevo fare diversamente. Crescevano in me i vissuti di frustrazione, insoddisfazione, rassegnazione e ho iniziato a “lasciarmi ingrassare” come sintomo “visibile” del mio malessere, come “segno di protesta silenziosa ma visibile” del risentimento nei confronti dell’atteggiamento della mia partner. Di queste ultimi aspetti ho iniziato a prendere consapevolezza nelle ultime sedute psicoterapeutiche ….. “
Nei casi in cui l’atteggiamento-comportamento disfunzionale è un sintomo non avrebbe senso e sarebbe inutile cercare di eliminare il sintomo- che tra l’altro in quel momento ha una sua “funzione” -prima di “elaborarne insieme” il significato e arrivare ad una “gestione migliore” di ciò che sta avvenendo “fuori e dentro di sé” rispetto a quell’aspetto.
I sintomi, anche nel caso di sintomi ansiosi, depressivi, ossessivi, attacchi di panico, possono essere di aiuto per comprendere insieme a pieno “il significato” del malessere che sta dietro. I sintomi sono la parte visibile di un malessere interiore, sono un pò come la punta di un iceberg che emerge dall’acqua ma è sotto che c’è la parte più “consistente”. Quella più significativa su cui lavorare per intervenire realmente sulla “radice” del malessere. Intervenire sul sintomo non sarebbe risolutivo.
Anche per questo motivo (cioè che hanno la funzione di segnalare un disagio interiore), vari approcci psicoterapeutici ritengono non sia il caso di utilizzare con leggerezza psicofarmaci per “tentare di eliminare i sintomi” a meno che ovviamente questi non siano acuti da dover essere “contenuti”.
L’idea di un consulto con un professionista ci può attrarre intuendo che in qualche modo ci potrebbe essere utile. A volte però l’idea di rivolgersi ad una persona sconosciuta, lo psicologo, e di essere aiutati in questioni che riguardano aspetti personali (psicologici, sentimentali, motivazionali,…) che non siamo abituati a confidare, può in un primo momento spaventare.
Al riguardo si possono avere molti dubbi, diffidenze, credenze, imbarazzi, vergogne, fantasie:
- “è davvero il caso che io parli con qualcuno? Momenti del genere capitano a tutti” minimizzando ciò che si sente.
- “forse i miei sono stupidi problemi per i quali non valga la pena disturbare?”
- “poi dallo psicologo non ci si va solo in casi gravi?”
- “cosa penseranno gli altri se vado dallo psicologo? penseranno che sono matto?”
- “poi cosa penserà lo psicologo se gli confido certe cose brutte di me?”
- oppure “se mi faccio aiutare allora non valgo niente”, “una persona se è forte sa arrangiarsi da sola”;
- “si ma tanto anche se ci vado cosa vuoi che conti? non potrà certo risolvere i problemi della mia realtà quotidiana”;
- “meglio spendere i soldi in altro, in qualcosa di più tangibile o divertente”;
- o “se ci vado e dovessi trovarmi male? o viceversa se mi trovassi così bene da non poter più smettere di andarci?”
- o “se mi dovesse costringere a dire o a fare cose o cambiamenti che non voglio?”
- e così via... .
“Ci sta” che ogni persona abbia pensieri e dubbi in base alle proprie idee e credenze, e una certa dose “iniziale” d’imbarazzo, di diffidenza, di resistenze legate a vari fattori caratteriali (ad esempio qualcuno per orgoglio potrebbe dirsi che dovrebbe mostrarsi forte e cavarsela da solo senza l’aiuto di nessuno).
Un disagio di tipo psico-emozionale – apparendo “immateriale” – può tendere in effetti ad ingannare. Si può tendere infatti a non dargli peso, a sottovalutarlo, o altro. Ad esempio a pensare di poterlo risolvere facilmente “da solo”. O peggio potrei avere la convinzione che “dovrei” essere in grado di risolverlo da solo e intestardirmi in questo atteggiamento anche se vedo che non riesco e nel tempo continuo a stare male.
A tutto ciò magari si aggiunge anche il “non poterne parlare con nessuno” di cosa sto veramente vivendo interiormente; il che è molto devastante e “corrode dentro”.
Percependo questo tipo di disagio come “immateriale”, posso anche erroneamente credere che non vi siano realmente modalità “pratiche e concrete” che mi possano essere di aiuto e che nessuna tecnica o nessun specialista mi possa aiutare. Che sono soldi spesi inutilmente.
Queste idee e credenze possono mettermi in un atteggiamento che può contribuire a peggiorare la situazione e via via aumentare la gravità del malessere psico-emozionale e psico-fisico.
E’ buona cosa però prendere coscienza che queste credenze e resistenze mi possono condizionare nella scelta di rivolgermi a qualcuno che possa essermi di aiuto. E che questo condizionamento può avere conseguenze molto gravi su di me: è come se mi facesse male un dente e non andassi dal dentista perché ho certe convinzioni o perché ne ho paura. Come minimo non esserci andato per tempo mi porta ad un dolore ben più grave che mi costringerà comunque ad andarci; e molto probabilmente la situazione interna del mio dente si sarà fatta molto più critica e richiederà un intervento molto più complesso rispetto quello che sarebbe bastato ai primi sintomi.
Riflettendoci, ci rivolgiamo a “qualcun altro” sostanzialmente per tutti i nostri “bisogni”, sia legati all’aver cura del nostro corpo sia legati a cose materiali della quotidianità. E come ci rivolgiamo all’idraulico se il sintomo è che lo scarico dell’acqua non funziona più …. può essere buona cosa rivolgerci ad uno psicoterapeuta se vi è un disagio psicoemozionale che non fluisce e si risolve da solo ma continua a persistere e ristagna ormai da tempo.
Molte paure, imbarazzi, dubbi, delle persone noto che poi si sciolgono nei primi incontri. Il mio atteggiamento (e tendenzialmente di tutti gli psicoterapeuti) è infatti quello di ascoltare e accogliere con attenzione ciò che la persona mi dice. E rispettoso di “bussare alla porta” della mente e del cuore della persona che ho di fronte, lasciandole la più totale libertà di decidere se aprirmi le porte, ed eventualmente quali “stanze” mostrarmi. E ciò in un accogliente atteggiamento di comprensione e assenza di giudizio. E’ la persona che con i suoi tempi e modi liberamente può decidere di farmi vedere cose di sé in modo da guardarle insieme e scoprire quali modalità possono essere di aiuto.
Se si hanno titubanze si può andare da uno psicoterapeuta anche solo per un consulto, uno o due incontri, in modo da comprendere come funziona, sentire che effetto fa, che “sapore” ha, e poi decidere su come procedere, compresa l’eventualità di salutarsi.
Di certo avviene “un incontro tra due esseri umani” che può fin da subito “risuonare come più o meno piacevole, accogliente e in sintonia”. Altri aspetti come la confidenza e la fiducia si rafforzano poi strada facendo.
Solitamente vi è la possibilità di “creare insieme un contesto” in cui la persona, stimolata anche nella propria riflessività e creatività, ha la possibilità di comprendere che cosa si è “inceppato” nelle proprie modalità di atteggiamento e di trovare modalità più funzionali al proprio ben-essere. Si tratta di un percorso di conoscenza e scoperta che persona e psicoterapeuta compiono insieme. E come spesso avviene quando ci si trova ad affrontare un pezzo di cammino impegnativo se lo si fa insieme a qualcun altro con cui mi sento in sintonia mi risulta più facile da affrontare.
In questo percorso terapeutico il rapportarsi tra psicoterapeuta e persona (insieme alle tecniche psicoterapeutiche utilizzate) danno la possibilità alla persona di “vedersi, specchiarsi, conoscersi”. Conoscere un pò di più le proprie modalità abituali di relazionarsi con se stessa, con gli altri, con il mondo; e scoprire eventuali nuove modalità più funzionali e soddisfacenti.